18 aprile 2012

2. LA STANCHEZZA - Read & Think

A volte capita di sentirsi strani. Non si sa esattamente che definizione dare al proprio malessere, non c’è nemmeno nessun sintomo concreto da dichiarare, ma non va.
Possiamo chiamare questo status “stanchezza”? non lo so, ma a me è capitato di definirlo così. Non è una stanchezza fisica, di quella che può soffrire una persona adibita a lavori pesanti o che colpisce un atleta in vista del raggiungimento del suo traguardo, non procura dolori muscolari o affanna il respiro, ma in un certo senso ci fa sentire il peso di cento sacchi di cemento sulle spalle, la tachicardia e il respiro affannoso di una lunga corsa. Non è stanchezza fisica, ma c’è.

Non si può nemmeno definirla stanchezza emotiva, quella che ci fa incrinare la parola nei momenti tristi o che ci fa alzare il tono di voce durante una lite. Non è un esaurimento nervoso, carico di pianti per un nonnulla, sbalzi d’umore, insonnia eccetera, ma talvolta non ne possiamo più di come va il mondo attorno a noi che la stanchezza ci si attacca al punto da sentire una morsa al collo che altera voce e umore.
Si è talmente stanchi da desiderare un po’ di riposo. Ma da cosa? Dal lavoro che non c’è, o da quello che c’è ma si è rivelato così lontano dai nostri sogni da diventare un incubo; dalle persone che ci stanno attorno, di cui sentiamo la presenza fisica senza averne la compagnia, con cui si parla (se va bene) come se fossimo davanti a uno specchio o, peggio, davanti a un muro che non riflette; dall’angoscia di sentirsi soli nel mondo o da non esserlo abbastanza per potersi ritagliare uno spazio per sé…
Ognuno ha motivazioni diverse, ma la stanchezza è comune. Elencando questa serie di sensazioni mi sono sentita diagnosticare una crisi d’ansia, con tanto di prescrizione farmacologica ad hoc. E non credo sia capitato solo a me. Ma io, francamente, non me la sento di accettare passivamente di levarmi la stanchezza di dosso con una pillolina. Da prendere “al bisogno, senza esagerare”.
Mi piace pensare che la mia stanchezza dipenda da uno stile di vita cui sono rimasta avvinghiata senza rendermene conto e che, quindi, il rimedio sia quello di riappropriarsi di tempi, luoghi e rapporti umani: godere del sole che accarezza il viso durante una passeggiata, magari in campagna ma, se non è possibile, almeno immaginarlo; chiacchierare e, soprattutto, ascoltare chi ci sta vicino; rallentare i ritmi, specialmente quelli del tempo libero.
E se di tempo libero non ce n’è?
Beh, effettivamente è possibile trovarsi senza “spazi liberi”, ma in questi casi (per esperienza personale) stranamente la stanchezza, così come la sto intendendo in questo contesto, non compare. È quando la vita ci permette di guardarci attorno che ci sentiamo strani. Quando la vita smette di imporci i propri ritmi frenetici, quei momenti in cui non possiamo sottrarci dalle responsabilità che ci sono piovute addosso sotto forma di incombenze, disgrazie o eventi imprevedibile, in quell’istante la stanchezza arriva.
Come la calma dopo la tempesta.
È questo il momento in cui è importante capire il segnale. La possibilità di rallentare, di entrare nel mondo che ci circonda partecipando, invece che subendo, di gestire la propria qualità di vita, di sorridere: quest’offerta è di quelle da prendere al volo.
La qualità di vita non è data dall’avere, ma d
all’essere e, quindi, è alla portata di tutti.
Di tutti quelli che, come me, sono stanchi della stanchezza e, per levarsela di dosso, non usano occhiali dalle lenti rosa, ma sorridono.

Su. 29.04.2010

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