Capita.
Di sentirsi stanchi,
impotenti: è la primavera, dicono. Se invece la stagione è quella
sbagliata la causa è del tempo che non è più quello di una volta,
o del cibo che è ormai pieno di conservanti, del progresso che ci
rende sedentari e pigri, dei valori che non ci sono più, del
computer, del telefonino, i vecchi, i giovani, grassi, magri...
insomma, di qualcosa o di qualcuno deve per forza essere colpa. Quasi
che trovare la causa o il motivo di ciò che ci capita, di come ci
sentiamo sia necessario (indispensabile!) per stare già meglio.
Tutto deve essere codificato, inquadrato, gestito e se così non è
(o non ci pare sia) è una catastrofe emotiva. Tutto deve essere
perfetto altrimenti non siamo... Cosa? All'altezza? Maturi? Trendy?
Ma come si acquisisce l'esperienza necessaria a gestire la
quotidianità, le situazioni e i momenti difficili?
Un tempo (e qui sento
il peso della mia età nel dire questa parola) appena finita la
scuola ogni scusa era buona per uscire e andare all'oratorio. Lì
c'era sempre qualcuno con cui fare due chiacchiere oppure giocare a
palla o fare un giro in bici (la vecchia “graziella” di famiglia
a cui era concesso al massimo di dare una mano di vernice per
renderla più moderna). E se qualcosa non andava, se dubbi o
perplessità ci affliggevano c'era sempre qualcuno con cui
relazionarsi: il gruppo di amici della stessa età, ma anche quelli
più grandi a cui chiedere cose che necessitavano di maggiore
esperienza o quelli più piccoli a cui avremo un giorno spiegato cose
che loro ancora non conoscevano. Si cresceva assieme, lentamente,
digerendo con calma gli scossoni della quotidianità che ci
accompagnava nell'evoluzione tra infanzia e pubertà.
Nel gruppo c'era
sempre chi era (o si sentiva) leader, chi era una palla al piede, chi
faceva sempre il furbo in ogni ambito, il cascamorto e la ragazza
“facile”, il tontolone e il genietto, lo sportivo, l'ignorante e
il sapientone. Insomma, era facile ritrovare tutte le sfaccettature
caratteriali del genere umano tra i ragazzi che frequentavano
l'oratorio e io ho imparato così a riconoscere peculiarità e
persone. Ancora adesso ad ogni nuova conoscenza associo mentalmente
un personaggio di antica memoria e tutte le chiacchiere e i
suggerimenti abbinati. Sì, perchè a ogni situazione, emozione,
disagio, esperienza che si raccontava al gruppo o al migliore amico
c'era qualcuno che dava una risposta perchè anche a lui (a lei) era
già successo.
Le cose della vita io
le ho imparate così, un po' romanzate, con tante lacune, talvolta
esagerate o sminuite, sicuramente vere perchè sapevo chi avevo
davanti, chi mi diceva cosa e ho imparato a valutare che non tutte le
persone erano adatte a rispondere a qualsiasi tipo di domanda: se
avevo bisogno di capire le strane alchimie del cuore la “ragazza
facile” non era la più attendibile mentre era la persona giusta
per imparare come reagivano i maschi in certe situazioni.
I genitori erano
tassativamente fuori dalla cerchia delle persone a cui confidarsi e
ai professori o al prete (scelti tassativamente tra quelli “giusti”)
ci si poteva rivolgere solo in casi estremamente gravi. Il Bene e il
Male era ben contraddistinto e sottolineato da brutti voti,
bocciature, magari qualche schiaffone e castigo o una bella pagella,
un sorriso o un complimento.
Ricordo che i miei
tormenti di giovane ragazza erano comuni a tante altre e quando,
finalmente, riuscivo a condividerli mi sentivo più forte. Tante
volte ho pianto e altrettante ho consolato. La scuola, i ragazzi, i
genitori, le difficoltà, il lavoro, le relazioni... tutto sembrava
essere uno scoglio insormontabile ma pian piano si superava. Era come
essere ai piedi di una scalinata e ogni difficoltà superata era un
gradino in più verso la cima che allargava anche la visuale
dell'orizzonte. Una salita impervia e al tempo stesso inebriante
perchè ogni passo in più era una conquista personale, un
accrescimento del proprio bagaglio di esperienze e si poteva dire: ce
l'ho fatta!
Oggi i bambini sono
già grandi. Sanno tutto, fanno solo le cose giuste e hanno dei
genitori che sono degli amici con cui parlano di tutto e che non li
sgridano mai. Oggi c'è internet e tutta la tecnologia che ci collega
al mondo globale e quando qualcuno cerca di capire qualche argomento
sconosciuto è sufficiente digitare la parola chiave su un Motore di
Ricerca ed ecco apparire una risposta, poco importa se è quella
giusta, quella migliore per noi. Non ci si pone nemmeno il problema
che non lo sia. È sicuramente corretta: c'è scritto su internet!
Non si analizza la ricerca, non si metabolizza la soluzione, non è
necessario andare oltre: la soluzione è lì, a portata di mouse
trovata al tempo di un click e probabilmente altrettanto velocemente
sparirà dalla nostra memoria senza che ciò che si legge diventi
un'esperienza propria.
Non ci sono gli
oratori ma ci si ritrova in quella piazza virtuale che è il social
network, dove tutti parlano di sé raccontando la propria vita, gli
eventi, le emozioni vissute e nessuno ascolta. Se però si necessita
di una risposta che si fa? Beh, è sufficiente andare in un forum a
tema: lì c'è sempre qualcuno dalla risposta giusta che magari ti
contatta direttamente in chat! E non è necessario sapere chi è,
perchè le parole che usa sono davvero belle e convincenti quindi
indice di persona sicuramente corretta e attendibile. Ma se così non
è?
Vite, personalità,
certezze (o pseudo tali) costruite e strutturate su queste basi sono
le caratteristiche di tanti giovani ragazzi di oggi. Tutti pieni di
conoscenze indirette, dati incamerati come se loro stessi fossero dei
computer che vivono costantemente collegati in rete tramite computer,
palmare, tablet, navigatore in ogni luogo e momento della loro vita.
Anche le pagelle, i voti e le note vengono comunicati ai genitori con
questo tramite.
Per poter creare un
programma adatto a una certa necessità, i programmatori prendono
tutti i dati, raccolgono e analizzano le variabili, inseriscono
formule ad hoc: è il loro lavoro e cercano di eseguirlo al meglio
creando hardware e software necessari e indispensabili a tutto. O
quasi.
La tecnologia può
aiutare e supportare non sostituire il fattore umano, perchè quando
qualcosa si incrina, quando abbiamo bisogno di una buona parola o una
spalla su cui piangere la tecnologia non può aiutare e allora si
ritorna all'antico. Più o meno.
La necessità di
interazione si insinua e spinge con impellenza a cercare un contatto
reale. Ma ormai manca l'esperienza per chiedere, per parlare, per
confrontarsi, la quotidianità di un normale rapporto di interazione
fatto di gesti e scambio di opinioni, quel modo di crescere assieme
per superare ostacoli e rafforzarsi nella vita.
Spesso mi trovo ad
essere il confessionale delle persone che mi circondano.
Confessionale, non confessore, essere cioè quel mobile che si trova
in chiesa (luogo di calma, espiazione e redenzione) a cui si accede
quando si è nella necessità di vomitare il nero che sentiamo pesare
nell'anima, senza pensare troppo (ma davvero importa?) a chi ci sta
dentro. Unica necessità: sentirsi meglio.
Io accolgo, ascolto,
talvolta soffro per un'empatia spontanea e incontrollabile con chi si
avvicina ma, proprio quando sento il desiderio (necessità?) di dire
qualcosa ecco che davanti a me non c'è più nessuno e rimango da
sola con la frustrazione di chi ha incamerato il peso altrui e
null'altro.
Come a un distributore
automatico: c'è chi inserisce una moneta (il proprio disagio) e si
aspetta in cambio una merendina, solo quella di suo gusto, e nulla di
più.
In quest'epoca in cui
i rapporti umani sono ridotti all'osso, questo è il massimo
dell'interazione. Ma è sufficiente?
Susanna
12.05.2015
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