1 giugno 2012

COME UN ANGELO - 6

Come un angelo
(…i bancari hanno un’anima?)



6.      Avvicinandosi alla meta

Spesso le persone si chiedono come facciamo, noi impiegati di banca, a distinguere “al volo” le banconote false da quelle vere ma poi, senza attendere, si rispondono da sole che probabilmente la nostra è una sorta di dote naturale.
La realtà è ben diversa.

Molti giorni passati a sfogliare banconote di tutti i tagli, per affinare la sensibilità dei polpastrelli alla carta filigrana, ore passate a osservare i dettagli per addestrare la vista a distinguere segnali di falsità, ma soprattutto la paura. No, non esageriamo: non si tratta di quella con la P maiuscola, ma è certamente quel senso di inquietudine, di potersi trovare in mano una banconota falsa, che fa dei bancari in servizio di cassa persone molto attente ai dettagli. Perché è necessario riconoscere subito la banconota sospetta, altrimenti sono guai. Infatti, solo con il cliente di fronte è possibile evitare contestazioni, in caso contrario l’addebito al cassiere è assicurato.
Questa sinergia di esperienza e timore, e forse anche un pizzico di particolare sensibilità, mi hanno trasformato con il tempo in un perfetto Rivelatore di Banconote Contraffatte Vivente come mi definiscono scherzando i colleghi che, a volte assaliti da dubbi, sottopongono biglietti sospetti alla mia consulenza.
Oggi è giorno di mercato. La piazza del paese e le stradine laterali sono ingombre di bancarelle di ogni tipo. Il flusso di persone in banca è costante, massiccio ma scorrevole. Servito un cliente, se ne fa avanti un altro: in campagna, le persone approfittano del giorno di mercato per venire in centro ed espletare anche tutte quelle fastidiose incombenze di banca.
Sono quasi le undici e decido che mi merito un piccolo break. Sto già uscendo quando una donna colpisce la mia attenzione. Minuta, con corti capelli neri scompigliati, mi si avvicina dal lato vicino alla bussola d’uscita. Ha lo sguardo nervoso, un tic le fa vibrare un angolo della bocca e tiene stretta tra le mani, una banconota da venti euro. Mi fermo e lei, incrociando il mio sguardo, solleva la banconota.
«Me l’hanno data di resto. Ma non sono sicura se…» mi dice con voce tremula. Non sembrava, ma è più alta di me. Sarà almeno un metro e settanta e deve avere all’incirca una cinquantina di anni ma vederla così, curvata da un invisibile peso, sembra una piccola e fragile ragazzina. Mi basta un colpo d’occhio per non aver dubbi. Il colore, i dettagli, i disegni sfocati: non serve avere ulteriori prove, ma il suo viso disperato mi ipnotizza. Allungo la mano e prendo i venti euro in mano e le stropiccio leggermente per sentirne il rumore. Anche quello suona male. Non è frusciante come la tela di filigrana, ma crocchia come un bel foglio A4.
«Allora? È buono, vero? Mi dica che è buono… la prego…» mi supplica senza convinzione. Il mio viso è già una risposta, ma i suoi occhi si assottigliano in una preghiera.
«Signora, mi dispiace» annuncio, cercando di essere più dolce possibile «se si accomoda un attimo di là in ufficio…»
«No, non è possibile! Sono andata a comprare i jeans per mio marito. Sa, alla bancarella di Giovi. Solo lì trovo la taglia extra-large. Ho pagato con cento euro e lui mi ha dato queste di resto…»
«Sì, va bene… ma deve ugualmente firmare il verbale e lasciarmi qui questa banconota.»
«Lei non capisce» dice mentre gli occhi faticano a trattenere le lacrime «io NON POSSO tornare a casa senza questi soldi…»
La osservo meglio. La sua magrezza urla da dentro quella maglia viola pallido, mentre le gambe nascoste da vecchi jeans scoloriti finiscono in scarpe troppo grandi. Si sposta il ciuffo dagli occhi e mi pare di vedere un segno. Forse non è un livido, ma solo il trucco un po’ sbavato.
«È sicura che sia stato Giovi a dargliela, signora?» chiedo con pazienza, mentre l’accompagno verso il fondo della sala. Cerco di evitare che possa essere al centro dell’attenzione, in un banale tentativo di risparmiarle la morbosa curiosità da parte degli altri clienti.
«Sì, sono sicura.»
«Non potrebbe essere successo su un’altra bancarella? O magari l’aveva a casa, ricevuta di resto un altro giorno?»
«No, non è possibile. Mio marito ha portato a casa la busta paga ieri sera e mi ha dato cento euro, non avevo altri soldi in casa. Mi ha ordinato di comprargli un paio di jeans. Io vado sempre nella stessa bancarella, anche se Giovi non mi piace. Mio marito, sa, è alto quasi due metri e pesa più di centotrenta chili… non è facile trovare la taglia giusta.»
Cerco di immaginare questa coppia nell’intimità delle mura casalinghe: lui grande e grosso che dà ordini, seduto a gambe larghe al tavolo della cucina, lei che esegue timorosa.
«Capisco. Ma vede, non posso aiutarla. Non posso far circolare questa banconota.»
«No… la prego… se torno senza soldi mio marito mi mena!»
Una dichiarazione appena sussurrata, ma che mi squarcia l’anima. Mi sento stringere lo stomaco. Non so che fare.
«Adesso torno da Giovi, e mi faccio dare dei soldi veri!» urla lei con la forza della disperazione.
«Scherza? No, non posso… non si può…!»
Cerco di pensare ad una soluzione. Ma non ce ne sono. Mi guardo attorno e mi accorgo che nessuno ha notato la scena. Respiro a fondo cercando di ascoltare solo il mio cuore zittendo la ragione.
«Signora, mi giura che uscita di qua andrà dritta da Giovi?»
«Sì. Quel bastardo mi deve ridare i miei soldi» e senza attendere una mia risposta, si gira ed esce dalla banca.

Sono stordita. Esco anche io e mi fermo davanti alla porta, senza scendere i gradini che portano alla strada, seguendola con lo sguardo. Lei stringe la borsa con entrambe le mani e cammina con passo deciso e svelto, da bersagliera direbbe mia nonna. Non sono sicura di aver fatto la cosa giusta, per lei. Sicuramente non ho fatto il mio dovere e questo mi pesa molto. Ho sempre cercato di rimanere strettamente legata all’etica professionale, pur usando un pizzico di umanità, ma stavolta ho la sgradevole impressione di non aver rispettato né l’una né l’altra.
Quasi fosse un segno del destino, vedo passare Edoardo e Alvise, i vigili urbani del paese. Loro mi vedono e io, sorridendo, faccio loro cenno di aspettarmi.
«Ciao Anna, che succede?»
«Ciao ragazzi. Sono appena stata al bar, e ho sentito della gente parlare.»
«Che novità… al bar, il giorno di mercato… e tu hai ancora voglia di ascoltare le chiacchiere di paese?» ride Alvise.
«Di che parlavano, stavolta? Di vitelli con due code o di galline verdi?» aggiunge Edoardo ironico. In effetti, qui in campagna le persone amano raccontarsi storielle più o meno serie e loro due, in quanto rappresentanti dell’ordine pubblico, sono abituati ad ascoltare i segreti degli abitanti del paese, che pare prediligano la giornata di mercato per essere divulgati.
«No. Parlavano di soldi. Soldi falsi.»
«Scherzi? Soldi falsi in paese?»
«Ragazzi… non vi prenderei mai in giro. Non su queste cose.»
«Va bene. Adesso facciamo un giro per le bancarelle e cerchiamo di stare attenti. Magari è solo una burla, ma è meglio verificare. Ciao Anna e grazie.»
Non so se è stata la scelta giusta, ma sentivo il dovere di far qualcosa. Non mi perdonerei mai se quei soldi, restituiti a Giovi, tornassero in mano a qualcun altro.
Rientro, e seduta al mio posto di lavoro, controllo nervosamente ogni banconota che passa per le mie mani. Non riesco ad essere sorridente e serena. Nella mia mente, l’immagine di quella donna dal viso troppo magro e dall’espressione tirata, di quei soldi falsi che non ho trattenuto, di Edoardo e Alvise cui ho mentito, inventandomi una storiella degna degli abitanti del posto. La domanda che mi pesa nel cuore è sempre la stessa: ho fatto la cosa migliore? Prima, davanti a quella piccola e fragile donna, non ho pensato alle possibili conseguenze, ma adesso mi rendo conto che anche io potrei essere nei pasticci. Con il ruolo che ricopro, ho degli obblighi di legge da seguire e uno di questi è proprio la denuncia dei falsi o, come correttamente sono definiti, dei sospetti di falsità.
È ormai ora di pranzo. Usciamo tutti assieme e come il solito c’è da decidere dove pranzare, ma oggi questo è l’ultimo dei miei pensieri.
«Che succede Anna? Non ti senti bene?»
«No, Giorgio. Sto solo pensando.»
«Deve essere un pensiero pesante, a giudicare dal tuo sguardo. È tutta la mattina che ti vedo così, tanto che non ho voluto disturbarti.»
«Disturbarmi?»
«Sì. Una signora. Ha telefonato in cerca di te.»
«E che voleva?»
«Non l’ho capito bene. Però ha chiamato almeno quattro volte. Ma non per lavoro. Voleva parlare con te, solo con te. Continuava a dire che sei un angelo, il suo angelo.»
«Perché non me l’hai passata?»
«Ti ho visto tesa, e non volevo disturbarti oltre. E poi, ha detto che non era importante.»
«Non ha lasciato un numero per richiamarla o un messaggio?»
«Ha detto solo di riferirti che Edoardo e Alvise sono andati a comprare dei jeans da Giovi. I vigili che vanno al mercato a far spese! Ci capisci qualcosa, tu? poi l’ho sentita sghignazzare al telefono, per me era una matta.»
Certo che ho capito. Adesso sono serena: so di aver fatto la scelta giusta e per una volta essere chiamata “angelo” non mi infastidisce. Sto davvero imparando cosa voleva dire il mio tutor anziano e mi sento ormai vicina alla meta.
«Ragazzi: oggi si va in pizzeria e il dolce ve lo offro io!» urlo in un impeto di gioia. Mentre ci dirigiamo tutti in pizzeria, sento Giorgio dietro me che, perplesso, sussurra a Sandro: le donne… e chi le capisce?


Fine 6^ puntata.
à continua…

2 commenti:

  1. la prima legge a cui render conto è il proprio autentico sentire...anche se a volte va contro le leggi e codici convenzionali...ovviamente ci vuole coraggio.

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  2. ...l'età aiuta a capire che è più difficile fare ciò che non si sente.

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