1 maggio 2012

SENZA CLAMORE



Non so quanto è passato dal mio arrivo all’ospedale. Qui il tempo assume una dimensione diversa. Una luce lampeggiante, seguita da un forte sibilo, sconvolge il lavoro dell’équipe medica. Vedo la Dottoressa uscire di corsa dalla stanza.
Rientra dopo un po’, mezz’ora forse. L’aria tesa, gli occhi segnati. Con un filo di voce mi annuncia che ormai è troppo tardi. Lei non ce l’ha fatta.


Lunghi corridoi asettici, una luce innaturale, un odore intenso di medicinali. Il personale medico si muove velocemente. Il tempo è prezioso al reparto Oncologia.
«Lasci pure le sue cose all’infermiera e mi segua. Dobbiamo fare con urgenza dei test di compatibilità. Abbiamo perso fin troppo tempo per rintracciarla.»
Ho eseguito gli ordini della Dottoressa senza profferire parola, entrando nella stanza da lei indicatami dove altri medici mi attendono. Intravedo solo i loro occhi, penetranti, che risaltano tra la mascherina e la cuffietta sterili. Il loro sguardo non mi rassicura.
Ovunque piccole provette. La luce bianca nella sala prelievi, non crea zone d’ombra e ogni più piccolo arnese, dagli aghi a strani attrezzi d’acciaio, è bene in evidenza.
Tento di schiarirmi la voce. Forse è l’aria troppo secca, oppure è quella sostanza che mi stanno iniettando.

Il tragitto fatto in taxi, dall’aeroporto a qui, mi è sembrato infinito. Ho svuotato la borsetta in cerca di un fazzoletto di carta per tamponarmi la piccola ferita, poi ho deciso di masticare una gomma americana. Sicuramente meno doloroso che continuare a mordicchiarmi il labbro.
Il taxi mi attendeva all’uscita dell’aeroporto, come previsto. L’aria al suo interno è irrespirabile. Il senso d’oppressione è accentuato dal lento scandire del tempo. Senza controllare i soldi che lascio, schizzo fuori dall’auto. Entro come un lampo in ospedale. Mi stanno davvero aspettando.

Non sono passate nemmeno ventiquattr’ore ore da quando l’insistente squillo del telefono ha disturbato la festa di famiglia.
Quella donna, molto garbatamente ma con fermezza, mi ha spiegato che al reparto Oncologia è ricoverata mia madre. Che ha un urgente bisogno di un trapianto di midollo. Vedo mamma in cucina che sta togliendo l’arrosto dal forno e abbozzo un sorriso. A chi non è capitato di immaginare, magari dopo una litigata, di non essere la vera figlia della propria madre?
«Lisa, non ho tempo per convincerla della verità. Le ho prenotato un biglietto aereo per domattina alle sette. Al suo arrivo troverà un taxi che la porterà direttamente da noi.»
Sono ancora con la cornetta in mano. L’insistente segnale telefonico mi rimbomba nelle orecchie, mentre tutt’intorno regna aria di festa.
Papà mi chiama a gran voce, invitandomi a sedere a tavola, ma io non riesco a muovermi. Mamma esce dalla cucina con la pirofila stretta tra le mani. Incrocio il suo sguardo. Ho sempre detto a mamma che sapeva leggermi nel pensiero, e lei ogni volta sorridendo rispondeva che era merito di quel legame speciale che ci univa.
«Lisa, ti accompagno in camera per aiutarti a preparare qualcosa per il viaggio».
La verità si sta ricomponendo nella mia mente. Piccoli frammenti di vita si uniscono, formando un’immagine ormai chiara.
Improvvisamente mi sento una bambina sperduta.
«Mamma…»
«No, tesoro mio. Lei ha bisogno di te, è giusto che tu vada…».

«La ringrazio di essere stata così disponibile. Mi dispiace sinceramente d’averle sconvolto l’esistenza, ma era mio dovere tentare.»
Con una stretta di mano la Dottoressa si allontana, visibilmente affranta per aver perso un’altra paziente.
Lei mi è passata accanto, in silenzio, stravolgendo la mia vita, e se n’è andata in punta di piedi, senza clamore.

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