19 aprile 2012

11. PERCHE' IO? - Read & Think


Ho già raccontato della mia propensione ad ascoltare: le persone, le cose, l’armonia e la dissonanza del mondo. È un modo di essere che mi appartiene da sempre. Non so se sia frutto della mia solitudine o se essa sia scaturita dal mio pormi in ascolto.
È ascoltando che mi relaziono con gli altri e talvolta il mio pensiero, invece che formarsi nella mia mente e arricchire semplicemente la mia persona, prende voce.
 Quando succede, ne ho paura: vedo la persona che ho di fronte quasi pendere dalle mie labbra e ricercare sempre più le mie parole, trasformandole in ciò che realmente non sono.

Io sono una donna qualunque, che ha vissuto momenti comuni a tante altre e che ha cercato di cavarsela nella vita. Nulla più.
Ma so ascoltare.
Amo ascoltare.
Potrei dare l’impressione che accogliere lo sfogo altrui sia per me piacevole. Non è così.
Per me è rasserenante, mentre ascolto i dubbi, le angosce, le confessioni, le vergogne di chi ho di fronte, avere la consapevolezza di non essere l’unica persona che ha sofferto.
 Rasserenante. Non piacevole.
Anzi.
Immaginate che le parole diventino corporee, solidamente concrete, e che uscendo dalla bocca di chi ascolto mi sommergano come una colata di fango. L’altra persona si libera, si sente sollevata da questo peso e, se a me è già successo di restare impantanata nello stesso tipo di fango, spontaneamente mi viene da suggerire soluzioni.
Pericoloso. Nessuno è uguale a un altro e ciò che ha aiutato me non è detto possa andare bene a chiunque quindi, per quanto mi è possibile, mi limito ad ascoltare.
Le vicende della vita sono sempre le stesse, nonostante l’età, l’estrazione sociale e anche il sesso di appartenenza: violenze fisiche o psicologiche subite da compagni o da genitori, amori difficili, tradimenti, sofferenze, depressioni, malattie e talvolta anche l’incredulità per una felicità a cui (a torto) si ritiene di non aver diritto.
Sono queste le storie che ascolto e che si ripetono all’infinito in tempi, luoghi e persone diverse, quasi fossero il refren di una canzone famosa, conosciuta da tutti.
L’empatia con storie ed eventi è pressoché totale e per alleggerire l’anima dalle vicende più pesanti mi sono scoperta scrittrice: trasferire su un foglio bianco tutto il nero che io stessa ho raccolto è per me quasi una necessità vitale, come se facessi una copia di back-up al mio cervello prima di resettare i pensieri e riavviare l’anima a nuovi ascolti.
Come ho già detto, solitamente è un ruolo che amo ricoprire, ma in questi giorni non sto molto bene: una depressione latente tenta di riaffacciarsi e alimentare il mio malessere con quello altrui non è certamente la soluzione migliore per scappare da questo fantasma, quindi sempre più impellente mi è uscita questa domanda: perché io?
Perché mi ritrovo ad essere l’orecchio dell’altrui pensiero? Perché le persone mi cercano? Perché vivo così intensamente il loro dolore? Perché non riesco (non voglio?) distaccarmi da questo ruolo?
Forse dipende dal fatto che le esperienze aiutano a crescere e io ho avuto la necessità di crescere in fretta, ma credo che inconsciamente scaturisca dal desiderio che qualcuno offra a me un po’ di ascolto.
Quello che non ho avuto in famiglia.
Quello che la chiesa non mi ha dato.
Quello che nemmeno professionisti pagati (psicologi) hanno saputo fare.
Ci sono pesi che ognuno di noi vorrebbe fisicamente togliere dalle proprie spalle, ma non si può. Talvolta l’unica soluzione  possibile è parlarne: un problema, un’angoscia, un disagio sono più leggeri se condivisi.
La frenetica vita di oggi ha creato una barriera tra le persone, la comunicazione è asettica, demandata a mezzi tecnologici e impersonali, la sensibilità d’animo è considerata debolezza. In un mondo dove tutto ha un prezzo, anche chi ascolta i problemi altrui è un professionista a pagamento. Le nostre nonne chiacchieravano mentre lavavano i panni al fiume o nelle serate invernali filando la lana davanti al focolare. Oggi televisione e computer ci rendono isolati dagli altri e annullano la consapevolezza di ciò che è giusto e sbagliato al punto che la persona non ha più punti di riferimento.
Non voglio ritenermi un “punto di riferimento”, ma credo che il piacere di ascoltare dipenda dal mio desiderio di condivisione. Ascoltare mi fa sentire meno sola e il prezzo che io “pago” per  questo, lo ritengo giusto.
Ecco PERCHÈ  IO!

…ma qualcuno ascolterà me?


Susanna 26.10.2011

4 commenti:

  1. Si, siamo qui ;)
    Il confronto e la condivisione sono la pietra di scambio per la consolazione che si ha a non aver vissuto lo stesso tipo di dolore invano : pensare che la nostra sofferenza possa aiutare un'altra persona è impagabile!

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    Risposte
    1. Grazie Renata. Apprezzo il tuo pensiero.
      Buona vita!

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