5 settembre 2010

Gaia


   Pare che il tempo nella saletta d’attesa non passi mai. Il dottor Sarti è una persona affidabile, molto rassicurante e di indubbia capacità professionale, ma a volte vorrei che fosse più veloce nelle visite. Già… più veloce con gli altri, non con me.
   Nella mia borsa c’è una busta, ancora chiusa, con gli esiti delle analisi che ho ritirato stamattina. Spero lui mi darà un aiuto, un consiglio, la sua opinione sul dilemma che mi assilla ormai da più di un mese. Cavoli… Ho quarantatré anni suonati: come ho potuto ficcarmi in un pasticcio del genere? Un pasticcio, ma penso davvero che lo sia?

   «Signora Federica, si sente male? Se vuole, appena esce il paziente che c’è in ambulatorio, la faccio passare», mi chiede Monica, l’assistente. È in quel momento che mi rendo conto delle lacrime che mi inumidiscono gli occhi e delle mani che fanno tremare perfino il libro che tengo in mano.
   «No, Monica, grazie. Sono solo un po’ stanca e lo stress mi fa dormire a fatica», rispondo, alzando la testa nella sua direzione.
   «Ne è sicura?»
   Nella saletta si crea uno strano silenzio. Una curiosità, a tratti morbosa, si alterna agli sguardi preoccupati degli altri pazienti
   «Sì, è per questo che sono qui. Non è nulla di importante… Posso tranquillamente attendere il mio turno. Grazie per l’interessamento». A queste parole l’intera saletta d’attesa tira un sospiro di sollievo.
   «Va bene, come preferisce lei», risponde Monica. Poi, con il suo passo veloce, va a prendere la cartella del prossimo paziente.
   «È bello sapere che c’è chi si preoccupa» aggiungo con il tono smorzato. Alcune persone sedute vicino a me abbassano lo sguardo arrossendo lievemente. Lo so. Questa ultima frase è cattiva, gratuita, detta solo per far sentire in colpa chi ha temuto che io “passassi avanti”. Un’infantile ripicca. Inutile. Ci sono almeno una diecina di pazienti prima di me e, al ritmo del dottor Sarti, questo significa come minimo un paio d’ore d’attesa.
   Riapro il libro a pagina venticinque, sempre la stessa da quando sono arrivata qua allo studio. Il silenzio, addolcito solo da una lieve musica in sottofondo, mi avvolge facilitando il riaffiorare dei ricordi che tento inutilmente di bloccare.
   È già passato un anno da quel giorno. Mi trovavo sulla riviera romagnola per un meeting di lavoro, insieme a colleghi provenienti da tutte le filiali d'Italia. Persone già incontrate in altri meeting simili, altre conosciute solo telefonicamente per motivi professionali, altre ancora sconosciute. La partecipazione è sempre stata libera ma ogni defezione all’invito aziendale viene mal vista e lascia spiacevoli strascichi. Nessuno ha mai preso in considerazione la possibilità di mancare.
   Per me ogni volta è un tormento: i figli da sistemare, gli sguardi critici dei suoceri e dei miei genitori. L’unico che non ha mai eccepito nulla è mio marito: a lui non interessa che io parta o rimanga. Ad ogni meeting, le colleghe mi guardavano con invidia perché io non dovevo mai discutere, né mentire. Ma io non mi sono mai sentita fortunata. L’assoluta indifferenza di Antonio aveva per me solo un motivo: mio marito non mi amava. E soffrivo in silenzio.
   Più volte avevo cercato di discuterne con lui, di sviscerare il problema, ma le mie parole, i ragionamenti e supposizioni, venivano ogni volta smontati. Lui aveva la particolare dote di sgusciare dagli argomenti seri come un’anguilla dalle mani. Gli contestavo di non condividere nulla con me, né le gioie né i dolori e più cercavo di portarlo sui problemi affermando che il nostro non si poteva considerare un matrimonio, più lui mi rispondeva che non capiva, perché non mi aveva mai negato la libertà. E cambiava argomento. Alla fine mi ritrovavo sempre sola, perdente e umiliata da un uomo che non voleva nemmeno considerare di poter avere un problema di coppia.
   «Signora Federica, come si sente? Sta un po’ meglio? Vuole un bicchier d’acqua?». Le parole di Monica giungono inaspettate e mi fanno sussultare. Cerco di rassicurarla che non serve e riesco ad allontanarla, anche se continuo a sentire il peso del suo sguardo su di me.
   Prendo una rivista dal tavolino a fianco. Sulla copertina spicca l’immagine di mare e spiaggia: l’estate si avvicina e i settimanali puntano sulla pubblicità legata alle imminenti ferie e anche gli articoli si dilungano in raccomandazioni, consigli di prevenzione e amenità varie. Alla terza pagina mi blocco: quella foto… è la mia panchina! E' una foto che ritrae una passeggiata sul lungomare di Riccione. E la mente ricomincia il suo viaggio di ricordi.
   Ero sola, in una splendida giornata di primavera inoltrata. Come ogni giorno, i corsi di aggiornamento erano finiti alle quattro. Dopo, eravamo in libertà. Io uscivo. E quel pomeriggio presi la strada del lungomare, immersa nei miei soliti pensieri, e mi fermai su una panchina. Poco dopo venne a sedersi un collega fino allora sconosciuto. Era giovane, vestito con un paio di jeans e una maglietta, capelli neri e corti, un viso dolce.
   «E' davvero bello questo posto», esordii con la più banale delle frasi. Poi il silenzio. Era un silenzio di quelli palpabili, che ti opprime con tutte le forme di paura, come se solo dopo aver fatto qualcosa ti accorgi che è tutta sbagliata e ti penti di averla fatta.
   «Sì, davvero bello», disse. «Facciamo due passi?».
   Mi alzai e ci incamminammo. «Non ti ho mai visto, prima, agli incontri».
   «Sono stato assunto a gennaio. È il mio primo meeting».
   «E che ne pensi? È come ti immaginavi?»
   «Non sapevo che cosa avrei trovato. Ma sono felice di esserci».
   Cominciammo a chiacchierare di tutto, alternando con naturalezza le mie vicissitudini alle sue. Fabio era siciliano, ma ormai viveva da qualche anno in provincia di Arezzo. Aveva soltanto 24 anni ma si sentiva già adulto e ascoltando la storia della sua vita non faticavo a pensarlo anch’ io.
    Diventammo amici e per la prima volta la settimana del meeting aziendale passò più in fretta di quanto avessi voluto. C’era una tristezza insolita nel mio cuore.
   «Non fare così. Continueremo a sentirci al telefono. Poi magari ci saranno altri incontri aziendali», mi disse sorridendo alla fine. «E poi non sono molti i chilometri che ci dividono» concluse, ma dicendolo i suoi occhi per la prima volta ebbero uno scintillìo diverso. Erano lucidi.
   «Federica, adesso tocca davvero a lei».
   Mi alzo dalla poltroncina della sala d’aspetto e mi dirigo verso la porta dello studio del dottor Sarti.
   «Bene. Accomodati pure. Hai fatto gli esami che ti ho prescritto?».
   «…sì…».
   «Tranquilla! Non c’è nulla di cui essere preoccupati. Vuoi un po’ d’acqua mentre do un’occhiata?». Il dottor Sarti prende un bicchierino, lo riempie dalla boccia a fianco la sua scrivania, e me lo porge prendendo in cambio la busta con i miei esami. Non avevo mai notato prima come l’acqua contenuta in un bicchiere di plastica possa formare cerchi concentrici, se la mano stringe leggermente il bicchiere e poi lo rilascia. Cerchi, come le piccole onde che si formano sulle pozzanghere al cadere delle gocce di pioggia.

   Ricordo che all’inizio fu una pioggia leggera, poi sempre più battente. Io e Fabio ci ritrovammo sotto un temporale primaverile in piena regola. I lampi, seguiti a breve dai tuoni, illuminavano le gocce che picchiavano il suolo con insistenza traendo vari suoni, diversi uno dall’altro.
   Per mesi Fabio e io ci eravamo accontentati delle telefonate, ma la confidenza era aumentata e con sempre maggior spontaneità ci si confortava a vicenda finché la distanza era diventata insopportabile: avevamo deciso di vederci.
   «Ci troviamo a metà strada: a Firenze. Pranziamo assieme, facciamo due chiacchiere, magari andiamo in un museo e poi la sera ognuno torna a casa sua», avevo proposto. Fabio aveva accettato, e il sabato successivo ero uscita di casa raccontando di questo pranzo di lavoro. Poco più di un’ora di treno e prima delle dieci lo avrei rivisto. Il nostro incontro avvenne all’interno della stazione dei treni, ma presto ci trovammo a passeggiare lungo l’Arno tenendoci per mano, raccontandoci dal vivo tutte quelle cose che già facevano parte delle nostre telefonate.
   «Federica, mi sei mancata tantissimo», mi confessò all’improvviso. Eravamo in mezzo al marciapiede, ostacolando il passaggio delle persone ma senza sentirle, uno di fronte all’altra, con le mani che non volevano staccarsi. Non ricordo chi iniziò quel primo bacio. Un tuono annunciò l' arrivo di un temporale. La pioggia ci sorprese, eravamo ancora lì a baciarci. Completamente bagnati, varcammo la porta di un albergo e prendemmo una stanza.
   «Allora, Federica. Dagli esami che vedo, è tutto a posto. Tu sei davvero convinta della scelta che stai per fare? Sai che puoi ripensarci fino all’ultimo momento, vero?». La voce del dottor Sarti è paterna: non sta giudicando, non vuole convincermi di qualcosa, cerca solo di trovare quella forte convinzione necessaria a compiere il passo successivo ma che vede mancare nel mio sguardo.
   «Dottore, comincio a non essere più sicura di nulla. Ho una tale confusione dentro di me». Prendo un fazzolettino, dall’immancabile pacchetto sulla sua scrivania, nel vano tentativo di arginare il fiume di lacrime.
   «Credo sarebbe meglio parlarne con calma. Ora torna in sala d’attesa: io finisco i due pazienti che rimangono, così potremo sviscerare il problema, ok?». Io non oppongo resistenza, mentre mi accompagna alla porta. «Monica, fai pure passare gli altri. Con la signora continuerò la visita dopo. Per cortesia, avverti mia moglie che stasera farò un po’ tardi?»
   Cerco di ricompormi, ma seduta nella sala d’attesa riesco solo a constatare che Antonio non ha mai avuto con me una simile attenzione. Non mi ha mai avvisato di un ritardo per la cena, o di una riunione fuori città. Lui semplicemente segue i ritmi del suo lavoro, senza pensare che io, a casa, potrei preoccuparmi. Con il tempo ho imparato a non curarmi della sua presenza: gestisco le cadenze della mia famiglia da sola, senza tener conto che i miei figli hanno anche un padre. Solo così evito delusioni a loro e anche a me. A questo pensiero, una nuova ondata di lacrime mi assale.

   «Allora, ci sono novità?» mi chiedeva ogni giorno Fabio.
   «No, ma stai tranquillo. Scommetto che è un semplice ritardo», mentivo. Mi sembrava impossibile essere incinta. I giorni erano passati e il test di gravidanza aveva dato un responso inequivocabile. Solo in quel momento mi ero resa conto della situazione: io, una donna di quarantatré anni, ero incinta di un ragazzo di ventiquattro. Avrei potuto essere nonna, invece portavo una nuova creatura in grembo. No, non ce l’avrei fatta a ricominciare con pappe, pannolini e notti in bianco. E poi l’asilo, la scuola… mio figlio si sarebbe vergognato di una mamma-nonna. Tutto questo, ammesso che la creatura fosse nata: la mia salute aveva causato molte difficoltà anche nelle precedenti gravidanze e adesso, che avevo quindici anni in più dall’ultima volta, certamente i problemi sarebbero stati maggiori. Avevo deciso: avrei abortito!
   Poi rivedevo gli occhi di Fabio, quella dolcezza e la sua forza di starmi vicino e sostenermi come nessun altro uomo aveva fatto prima, e immaginavo il nostro bambino crescere con noi, somigliargli sia fisicamente che di carattere. Ho desiderato più volte che Fabio diventasse il mio compagno di vita, al punto di parlare con Antonio.
   «Voglio divorziare», avevo detto una mattina a mio marito, quando mi sembrava più ben disposto ad ascoltarmi.
   «Come, scusa? Che discorsi sono questi?», mi aveva risposto Antonio, con lo sguardo più stupito che altro.
   «Sono anni che stiamo assieme, ma non abbiamo nulla in comune: né hobby, né il desiderio di passare del tempo assieme, né la voglia di fare sesso. Nulla ci lega, a parte i figli. Non pensi sia stupido continuare a rimanere sposati?», avevo detto tutto d’un fiato ciò che per anni mi ero ripetuta, senza aver il coraggio di buttare fuori.
   «Mah… Il brutto è che mi sembri maledettamente seria, in questo discorso. Ti vedo convinta di ciò che dici, ma credo sia meglio tu ti faccia una bella doccia… vedrai che dopo starai meglio». Antonio mi aveva lasciato così, dandomi un bacino in fronte, per andare a farsi un giro in bici «Sai, mi piace l’aria della primavera! Ci vediamo dopo…».
   No, non era davvero possibile gestire la situazione in modo diverso.
   «Ecco, adesso possiamo parlare con calma senza temere di essere disturbati da altri pazienti», mi dice il dottor Sarti. Attorno, le sedie della sala d’aspetto sono vuote. Monica ha già salutato e chiuso la porta dello studio dietro di sé. «Allora, Federica, come ti senti?»
   «Dottore, a volte il mio cuore vorrebbe tenerlo questo bimbo, ma la ragione mi spinge a non farlo. Cosa è giusto fare? Non lo so più».
   «Mi dispiace, ma fra tutte le cose che posso fare per aiutarti, questa è l’unica che non mi è consentita: decidere al posto tuo. Vedo dai documenti che mi hai portato che stai seguendo questa strada senza Antonio e non entro nel merito della scelta. Credo che il mio compito sia quello di aiutarti dal punto di vista medico. La certificazione del Consultorio te l’hanno già data, il che significa che hai già sostenuto il colloquio con lo psicologo e che lui ha giudicato che sei in grado di capire e sostenere la scelta, vedo che gli esami preventivi per l’operazione di interruzione di gravidanza sono buoni, hai già la prenotazione della struttura ospedaliera per il mese prossimo. Adesso manca un’ultima visita, la mia, con relativa ecografia. Poi, legalmente, sei pronta. Però ricorda che fino all’ultimo secondo potrai cambiare idea». Mi stendo sul lettino, nell’altra stanza.

   «Adesso con l’ecografia controlliamo la situazione, poi certificherò la data di concepimento».
   Sì, è quello che mi avevano detto in ospedale. Questa è l’ultima scartoffia necessaria, poi l’impiccio sarà finito. Mi costringo a pensare alla situazione come fosse una banale scocciatura, come un dente che fa male e va estratto senza tentennamenti. Voglio crearmi questa barriera fra me e la mia anima per non pensare che il nostro bambino cresce dentro di me ogni minuto che passa, fino a che io non bloccherò questo percorso. Sì, perché tutto il peso di questa decisione è mio e pesa sulla mia coscienza, sul mio cuore. Sono io che ho avuto un’avventura con un ragazzo che potrebbe essere mio figlio, io che mi allontano da lui togliendogli anche la possibilità di decidere se essere padre, io che tengo fuori dalla mia vita un marito che non considero più tale.
   Non ho mai considerato un’avventura la mia storia con Fabio, ma siamo sinceri… cos’è lui per me? Come posso dire di amarlo se non gli permetto di stare al mio fianco? Mi sono sempre ritenuta una donna forte, ma ecco che quando la vita mi mette alla prova mi ritiro dalla lotta come un animale ferito.
   «Federica, ma tu come ti senti?». Il tono del dottore è stranamente preoccupato e mi fa piombare nella concreta realtà. Lo vedo scrutare il monitor, passare più volte la macchinetta sul mio addome da un verso e poi dall’altro.
   «Qualcosa non va?»
   «No, è che… è strano, non capisco. In quante settimane dovresti essere?»
   «Tenendo conto dell’ultimo ciclo, sono alla settima settimana»
   «Hai avuto dei dolori in questi giorni? Delle perdite?» continua lui.
   «Sì, in effetti è da qualche giorno che ho iniziato ad avere delle perdite e, a dire il vero, volevo una sua opinione in merito. Sa, ormai inizio ad essere preoccupata, e…».
   Mi sento debole, stanca dentro. Depressione, l’ha chiamata il dottor Sarti e mi ha prescritto venti giorni di malattia. Quando sono tornata a casa, con il certificato in mano, nessuno ha fiatato: Antonio e i ragazzi mi hanno guardato stupiti, quasi sentendosi colpevoli di qualcosa che nemmeno loro immaginavano potesse colpire me.
   «Mamma, ma poi guarisci, vero?» mi ha chiesto Giorgio, il piccolo, con un filo di voce, mentre preparava la tavola in fretta. Buffo: ho sempre dovuto urlare perché qualcuno dei ragazzi mi aiutasse all’ora di cena.
   «Non tormentarla! Ricordi che ha detto papà?» interviene Anna, che dall’alto dei suoi sedici anni si sente una vice-mamma.
   La notte è passata lentamente, insonne come tante altre prima di questa, e il giorno ha preso il suo posto. I ragazzi sono a scuola, Antonio è al lavoro. Nel silenzio della mia casa vuota, con i balconi spalancati per far entrare l’aria fresca della campagna, sento sul viso il calore dei raggi solari. Non riesco ad alzarmi dal letto e mi rigiro senza pace tra le lenzuola, in una stanza troppo vuota.
   In certi momenti mi sembra sia stato solo un sogno, altre volte la sento così presente da essere ancora qui con me. Sì, ne parlo al femminile. Perché sono sicura: sarebbe stata una bimba. L’avremmo chiamata Gaia, un nome solare e pieno di vita, come quella che sentivo crescere in me. Avrebbe avuto degli occhi azzurri come il cielo d’estate con delle pagliuzze dorate a ravvivarli, come i miei, ma con lo sguardo da dolce cerbiatto come quello del suo papà; sarebbe stata piccina e aggraziata, dal sorriso amabile. Me l’immaginavo giocare con Fabio e li sentivo ridere sereni: Gaia sarebbe stata la prova concreta di un grande amore.
   Lacrime di dolore sgorgano senza freno. Cerco di soffocare l’angoscia e il tormento che mi assalgono senza tregua. Ora lo so: non ci sarei riuscita, non lo avrei mai fatto.
   «L’utero risulta vuoto, probabilmente a causa di un aborto spontaneo».
   Così ha detto il dottor Sarti e le parole mi rimbombano ancora. Con il dolore che mi sovrasta, prendo il cellulare e compongo il numero di Fabio.
   Suona. Al segnale di risposta, dalla mia bocca escono solo poche parole strozzate. «…la natura ha deciso al posto nostro…».
   Chiudo senza attendere commenti e scivolo sotto le coperte.


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